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Che cos’è e quando è configurabile il cd. concordato “misto”?


Che cos’è e quando è configurabile il cd. concordato “misto”?

di Filippo Lamanna

Nella prassi si usa molto spesso l’espressione concordato “misto”.

Non l’ho mai apprezzata, perché lo stesso concetto - la mistione - contribuisce a confondere gli istituti, più che a identificarli con chiarezza, e il suo utilizzo è anzi talora dettato proprio da una non distinta comprensione degli stessi.

 Il rischio di confusione è poi massimo quando la suddetta espressione è utilizzata a sproposito.

 Mi riferisco in particolare ai casi in cui la figura del concordato “misto” viene riferita non già, come ci si potrebbe aspettare, al concordato con continuità aziendale “impura” o “indiretta”, ove è prevista la cessione a terzi dell’azienda in esercizio  o il suo conferimento in una o più società, ossia a fattispecie in cui una qual certa mistione potrebbe riconoscersi, poiché si ha in effetti il concorso della interinale prosecuzione aziendale con un esito tipicamente liquidativo; ma viene invece riferita al concordato con continuità aziendale “diretta” o “pura” allorchè sia prevista nel piano anche la liquidazione di beni non strategici, ovvero non funzionali.

 Qui si annida un vero e proprio errore concettuale.

 Infatti questo tipo di concordato è, e resta, un concordato con continuità aziendale pura, modellato sulla vecchia tipologia del concordato per garanzia, o promissorio, oggi confluito nella più generale tipologia del concordato ristrutturatorio. In questo tipo di concordato, a differenza di quanto si verifica nei classici concordati liquidatori per cessione dei beni, il debitore resta nella titolarità dei suoi beni e può continuare liberamente a disporne. Naturalmente, siccome il piano prevede la continuità aziendale, è coessenziale alla suddetta figura la prosecuzione dell’impresa, e anzi proprio da questa ci si attendono i flussi finanziari  che verranno utilizzati per pagare i creditori, almeno di norma (anche se non necessariamente: si pensi ad es. al caso in cui un terzo intervenga per ricapitalizzare un debitore che sia un’impresa societaria, ipotesi in cui il pagamento solo indirettamente può ritenersi derivante dai flussi connessi alla prosecuzione dell’attività, mentre in via diretta derivano dalla intervenuta immissione di nuovi mezzi finanziari mediante ricapitalizzazione).

 Ebbene, proprio perché il debitore può continuare a disporre dei suoi beni, è del tutto naturale che poi possa provvedere di sua iniziativa alla vendita di singoli cespiti, che non vengono quindi resi oggetto di cessione ai creditori (ipotesi che presuppone l’operare di un mandato a vendere in senso lato), ma vengono liquidati nell’esercizio di una facoltà dispositiva connessa e coessenziale alla stessa causa di tale forma di concordato promissorio. Di conseguenza, per l’attuazione di tali modalità liquidative ha senso che sia il commissario giudiziale ad esercitare la sua consueta vigilanza, ma non avrebbe senso nominare un liquidatore giudiziale, che esplica una funzione gestoria compatibile solo con il concordato per cessione dei beni (tanto che non a caso la sua nomina è prevista esclusivamente per tale ipotesi dall’art. art. 182 l. fall.), ossia solo con una tipologia di concordato in cui i beni sono consegnati alla disponibilità dei creditori, che viene al contempo persa dal debitore, ed occorre quindi liquidarli (per poi ripartirne il ricavato) attraverso l’attività di un soggetto (il liquidatore) imparziale (come tale non emanazione del debitore medesimo).

 Pertanto se la legge, nell’art. 186-bis, comma 1, ultimo periodo, l. fall. consente espressamente che il piano di continuità possa prevedere la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, ciò non significa che alla continuità d’impresa si aggiunga, determinando una “mistione” di cause e di figure, una possibilità liquidativa extra ordinem, essendo essa - come  dicevo testè - la conseguenza naturale, fisiologica della struttura e della causa del tipo concordato per garanzia, o promissorio o ristrutturatorio.

 La norma, invece, ha solo voluto chiarire (ma ad abundantiam) un dato che, forse, nell’applicazione pratica dell’istituto avrebbe potuto reputarsi dubbio, ossia che la continuità diretta o pura non è una camicia di Nesso che costringa solo a proseguire l’attività aziendale senza mai vendere alcun bene, nemmeno quelli che non servono affatto a tale prosecuzione, ma che essa è del tutto compatibile con tale possibilità liquidativa.

 È quindi consigliabile limitare l’utilizzo dell’espressione “concordato misto”, se proprio non può farsene a meno, ai soli  concordati con continuità aziendale “impura” o “indiretta”, e non ai concordati  con continuità aziendale diretta in cui sia prevista la liquidazione dei beni non funzionali.

Tratto da "Il Fallimentarista"